De Laurentiis, mercante di sogni "90 anni e una vita da Oscar"
Il grande produttore italiano vive in California. L´8 agosto festeggia. Il regalo del governatore Arnold Schwarzenegger: un giorno dedicato al suo nome


Non sono affascinanti gli studios nella luce del mattino. La foschia che avvolge Burbank rende ogni cosa "normale", un aggettivo che nella fabbrica dei sogni è un´imprecazione. I trenini s´inerpicano verso i cancelli della Universal carichi di visitatori pronti a incontrare Shrek e i Blues Brothers. Dai varchi del James Stewart Boulevard, invece, entrano addetti ai lavori e personaggi in cerca d´autore.

Il bungalow di Mister De Laurentiis è in fondo al viale, uno dei tanti, anonimo, troppo piccolo per un uomo che appartiene alla stirpe reale del cinema. Ma all´interno, l´ufficio del megaproduttore racconta quasi un secolo di cinematografo. Academy Awards, David di Donatello, Leone d´oro e la statuetta che gli è più cara, l´Irving G. Thalberg Memorial, premio alla carriera che gli consegnarono nella notte degli Oscar del 2001.

Dino De Laurentiis, all´anagrafe Agostino, egli stesso membro dell´Academy, lo prende dalla vetrina, lo accarezza: "È un riconoscimento che danno solo in occasioni speciali", dice. L´8 agosto compirà novant´anni, è in forma, elegante, dinamico, mille progetti in testa. Sta preparando il sequel di Barbarella, il film di Roger Vadim con Jane Fonda che produsse nel 1968. Si accende un cigarillo: "Ho avuto sessanta nomination all´Oscar, è come se li avessi vinti tutti, è già una bella soddisfazione essere nella rosa dei cinque. Io vengo da Torre Annunziata, la chiave del mio successo è l´umiltà".

Entra la produttrice Martha Schumacher, sua moglie, che venerdì scorso ha compiuto cinquantacinque anni. Bionda, bellissima, fascino alla Candice Bergen. Gli porge una lettera: "Credo che presto dovrai preparare un discorso!", annuncia radiosa. La lettera porta la firma di Arnold Schwarzenegger. Il governatore della California ha deciso di celebrare il Dino De Laurentiis day.

Ne ha fatta di strada il rappresentante di Torre Annunziata. "Ah, che voglia di tornarci, ma ormai ho novant´anni, viaggio poco. Un´infanzia avventurosa la mia. Mio padre aveva un pastificio. A un certo punto ebbe bisogno di un rappresentante. Mi guardò negli occhi: "Tu". "Ma papà", risposi, "io non ho mai venduto. E dove dovrei andare?". "Nelle isole, cominciando da Ischia e Capri". Fu il primo impatto con Capri. L´isola mi impressionò, e da allora ci sono sempre tornato".

"Un giorno, andando a Roma, sempre per vendere spaghetti, vidi un annuncio, il Centro sperimentale di cinematografia cercava allievi. Ero un ragazzino di provincia, avevo diciassette anni, adoravo il cinema, l´unica cosa che vedevo erano gli attori, così pensavo che il cinema fosse fatto solo di attori. Feci domanda, mi convocarono: fui ammesso. Ricordo ancora quella sera a tavola con i miei sei fratelli. Mamma fingeva di non sapere, papà non proferì parola. Finì di mangiare i suoi spaghetti, poi disse: "Io penso che tu sia un folle, però non voglio che dopo la mia morte i miei figli abbiano a dire che non gli ho permesso di fare della loro vita quello che vogliono". Così iniziò la mia avventura cinematografica. Feci un film da protagonista diretto da Pietro Germi, andò abbastanza bene, ma non ero convinto. Non ero nato per stare davanti alla macchina da presa, ma dietro".

Strizza gli occhi, insegue i ricordi: "Il problema, a quell´età, era farsi prendere sul serio". Aveva solo diciannove anni e una grande abilità di venditore, lo aveva dimostrato a diciassette piazzando quintali di spaghetti, lo confermò trovando finanziatori con i quali fondò la Real Cine e nel 1941 produsse il primo film, L´amore canta. Poi arriva la guerra a sbaragliare i sogni. L´Italia ne esce devastata, ma le idee circolano più vorticosamente di prima. "Il grande cinema, quello che ha fatto scuola, è nato nel dopoguerra", racconta. "Cinecittà era occupata dagli sfollati, non c´erano macchine da presa, non c´erano soldi. Solo un gruppo di uomini geniali: Rossellini, De Sica, Fellini, Lattuada e... io", dice con insospettata timidezza.

"Da quel gruppo nacquero Roma città aperta, Sciuscià, Paisà, Ladri di biciclette, i film dell´industria povera che i critici chiamarono neorealismo. Non giravamo per le strade con l´idea di creare un nuovo stile, ma per necessità, perché non avevamo soldi per pagare i figuranti. Quei film lanciarono il nostro cinema nel mondo e fecero capire agli americani che il loro sistema produttivo era sbagliato. Lo hanno detto e ripetuto Spielberg, Pollack e Scorsese: "Abbiamo imparato da voi". Fu un momento magico: Hollywood rischiò di perdere il primato. La cosiddetta Hollywood sul Tevere fu agevolata da una legge fatta da Andreotti, l´unica intelligente mai varata per il cinema, che diceva: un film per essere italiano deve avere almeno il cinquanta per cento di personale italiano".

"Questo ci dava la possibilità di impiegare anche attori americani, come Clint Eastwood negli spaghetti western o Audrey Hepburn in Guerra e pace. A un certo punto gli americani - ho il dubbio che abbiano pagato salato per questo - riuscirono a convincere il governo a cambiare la legge. Il socialista Corona varò un decreto che fu la tomba del nostro cinema, portava la percentuale dal cinquanta al cento per cento. A quel punto non ebbi esitazione, partii per gli Usa".

Il principe del nostro cinema, l´uomo che pensava in grande, il campione della Lux Film, lo spericolato imprenditore della ditta Ponti-De Laurentiis che nel 1952 produsse il primo film italiano a colori (Totò a colori), l´uomo che aveva stregato e sposato la bellissima Silvana Mangano, il self-made man nominato nel 1966 cavaliere del lavoro che in pieno boom economico aveva ospitato negli studi di Dinocittà divi come Henry Fonda e Ava Gardner, l´audace imprenditore che aveva portato grandi storie sul piccolo schermo (L´Odissea) gettò la spugna: non poteva più competere con Hollywood.

"Quando arrivai in America, il sindaco di Los Angeles mi consegnò le chiavi della città", ricorda. "Io ero terrorizzato: che ci faccio qui, non conosco la lingua, non conosco i loro gusti, come mi muovo? Tutto dipendeva dal primo film, se imbrocco quello", mi dissi, "è fatta. Chiamai Peter Maas, un autore dal quale avevo già acquistato i diritti di Joe Valachi-I segreti di Cosa Nostra: "Ho bisogno di una storia", gli dissi. "Sto scrivendo un nuovo libro, ma ho già pronto solo il primo capitolo", rispose. Pretesi che me lo mandasse. M´intrigò quel personaggio e comprai Serpico a occhi chiusi. Maas pretese un capitale, cinquecentomila dollari, cinque milioni di euro di oggi, ma quel film, interpretato da Al Pacino, fece la mia fortuna. Poi arrivarono I tre giorni del Condor, un cult. A quel punto ebbi qualche certezza: ok, posso fare il produttore americano".

Lumet e Pollack, Lynch e Cimino, Ridley Scott e Jonathan Demme sono solo alcuni dei registi di sangue blu che hanno lavorato a corte. "E ancora dicono che faccio film commerciali", sbotta il produttore di Hannibal Lecter-Le origini del male. "I critici e il cinema non sono mai andati d´accordo. Povero Totò... Grande amico, attore immenso. La critica lo fece a pezzi, lo trattò come un guitto. E La strada? Nessuno voleva farlo. Abbiamo vinto l´Oscar, decine di premi nel mondo. I critici lo condannarono: "Fellini è un giovane regista che può fare molto, ma questa volta ci ha deluso". Così decisi di affittare una sala sugli Champs-Elysées: i francesi impazzirono, critica e pubblico. Il successo de La strada partì da Parigi".

Si solleva gli occhiali sulla fronte per guardare le locandine incorniciate al di là dell´immensa scrivania. Casanova, Conan il barbaro, L´anno del dragone, Dune, Ragtime, che ha avuto otto nomination all´Oscar. "Cosa siamo noi, in fondo?", riflette. "Creatori di sogni. Per questo adoravo Fellini. Eravamo come fratelli. Volevo portarlo in America, lui era titubante. Un giorno lo chiamai: "Federico, ho comprato i diritti di King Kong". La prima reazione fu: "Ecco, questo m´interessa". Poi ci ripensò: "Non me la sento"".

Meryl Streep racconta di aver sostenuto un provino per King Kong e di essere stata brutalmente scartata da De Laurentiis. "Macché", contesta, "me la proposero per Il re degli zingari, nel ´77. Al regista Frank Pierson non piacque, voleva una ragazza bella, fisicamente prestante. Per King Kong invece cercavo un´attrice da lanciare. Mi mandarono Jessica Lange. Non mi convinse, brutti denti, poco seno. Dopo il provino, il regista John Guillermin mi chiamò: "Dino, questa è una grande attrice". La convocai nel mio ufficio: "Senti Jessica, se torni da me fra quindici giorni con denti e seno rifatti la parte è tua. Ma ricorda, io negherò sempre di fronte al mondo di averti fatto questa proposta". Tornò dopo dieci giorni, aveva seguito il mio consiglio. Fu la prima attrice che lanciai negli Usa. Poi ce ne sono stati molti, da Arnold Schwarzenegger in poi. L´american dream esiste ancora. Chiunque lo può afferrare, e senza carte bollate".

"Una vita che è un romanzo", hanno scritto Tullio Kezich e Alessandra Levantesi nel bel libro Dino, che nel 2004 è uscito anche in lingua inglese. Nei romanzi l´italoamericano è sempre vittima di qualche stereotipo. "Infatti qui, per un certo gruppo sociale, l´italiano per sua natura è mafioso. Lo dissero anche di me, e sa perché? Un mio direttore di produzione ebbe un diverbio con la polizia mentre giravamo Pollice da scasso (1978), così dovetti presentarmi di fronte a una commissione. "Lei conosce la mafia?", mi chiedono. "Conosco Jimmy Carter, il papa, molti vip, è il mio mestiere, ma non conosco la mafia". E loro: "Eppure lei conosce Vincent Alo, detto Jimmy Blue Eyes". "Certo, voleva bloccare un mio film, The Valachi Papers. L´ho incontrato, l´ho costretto a non importunarmi. Fine della storia"". Un capitolo che non poteva mancare nel romanzo del magnate che ha finanziato, distribuito e prodotto oltre seicento film. L´ultimo tycoon.
GIUSEPPE VIDETTI
(La Repubblica)