Dire Aniello Giordano è poco per far capire di chi stiamo per parlare.
Giordano è un cognome molto comune, dalle nostre parti, come pure il nome Aniello.
Per fortuna ci sono i nomignoli per distinzione e Aniello Giordano ne aveva uno che si portava appiccicato addosso sin dalla gioventù, un soprannome che racconta un pezzo di storia cittadina, un piccolo puzzle di un’Italia che lasciava alle spalle la tragedia della guerra e si avviava a tracciare il suo futuro con l’arte dell’arrangiarsi.
Lo incontrammo, il 2005, nella sua casa al rione "Carminiello" dove viveva insieme al figlio Giuseppe e alla nuora; aveva 88 anni e seppur con gli acciacchi dell’età era lucido e conservava ancora una discreta energia.
Nell’ultimo periodo aveva subito un intervento chirurgico che lo costringeva a stare a letto; se non fosse stato per quello sono convinto che ci avrebbe sicuramente ricevuto personalmente alla porta.
Aniello Giordano nasce a Torre Annunziata il 26 febbraio 1916; dall’età di 18 anni inizia un’attività di carbonaio in una piccola baracca situata nei pressi dell’attuale mercato ortofrutticolo in via Roma, a quel tempo parcheggio dei pullman della società di trasporti AGITA.
Aniello prende il nome di Barracchèlla proprio dalle piccole dimensioni del suo esercizio di carbonaio.
Partito per il militare, all’inizio della guerra è fatto prigioniero dagli inglesi e per circa sette anni resta in prigionia. Al ritorno dalla guerra è uno dei tanti italiani che si scorciano le maniche e si inventano lavori e attività per tirare avanti nella povertà generale. Pur avendo alla base l’attività di carbonaio si inventa un ulteriore mestiere grazie alla possente sua voce offrendosi come strumento di propaganda di attività che aprono i battenti o di altre che promuovono prodotti o servizi.
Barracchèlla andava magnificando per le strade cittadine ogni sorta di mercanzia.
Era il simbolo della rèclame, la pubblicità verso la plebe che non sapeva né leggere né scrivere.
Arrivava nei rioni con il suo assordante campanello e chiamava a raccolta la “popolazione” affinché comunicasse loro, esprimendosi con la nostra sonora parlata, ogni tipo di notizia.Tutti si rivolgevano a lui: dal commerciante al politico, dal singolo cittadino all’Ente locale.
Per annunciare l’apertura di un nuovo esercizio commerciale, per pubblicità elettorali, per urgenti informazioni alla cittadinanza da parte del Comune, per l’incitazione della tifoseria sui campi di calcio, insomma, per tutto quello che si voleva far sapere e che diventasse manifesto ci si rivolgeva, senza alcuna esitazioni, a lui.
Barracchella veniva chiamato finanche quando si perdeva un bambino ed il suo intervento risultava sempre straordinario.
È chiaro che col nostro personaggio ci troviamo in presenza di un trascorso in cui la vita di Torre Annunziata si svolgeva nei quartieri popolari, laddove pulsava il cuore economico e sociale di una paese ancora lontano dalla conoscenza dell’onta di città di camorra e fango pedofilo; con mamme coraggio ammazzate.
Oggi, per la nostra gente, dire Barracchèlla equivale alla pronuncia di una parola magica che riapre un sipario immaginario degli anni ´50 sui quartieri: Provolera, Carceri, Vicoli della Marina e Murattiano mostrandoci la vita nelle sue viuzze
...E così rivedi la scena dell’anziana vedova venditrice di soffritta e fave, ferma all’angolo di un vicolo, con pentoloni di alluminio ai lati, mani nelle tasche di un grembiule sgualcito su cui si denota la cromatica presenza di impronte, dal marrone delle fave al rosso-sugo del soffritto, unico momento di colore, unica concessione allo stretto lutto sul tutto nero della gonna, della maglia, del foulard, dei calzettoni e delle scarpe (e forse anche delle mutande) e poi t´appare il carretto del ricottaro che ti riporta alla fragranza di quel panino ripieno, da reggere leggero, appena appena con i polpastrelli delle dita, perché a stringerlo troppo ti colava per terra il nettare del latte, lasciandoti, a dispettoso ricordo di se, l’umida mollica e il palato orfano dell’ultimo boccone, quello che da ragazzi chiamavamo - ’o muorzo d’o core - e ancora puoi rivedere quell’angolo umano del lustrascarpe ingobbito dagli anni e dal lavoro; novanta gradi di sudore e umiltà spesi tra cromatine e spazzole nel perenne inchino verso figure con scarpe bicolori in pelle di vitello e suole di vero cuoio e vestiti di fresco lana cuciti a mano e pagliette per copricapo.
Su tutto questo affresco di usi e costumi di un tempo la voce di Barracchèlla si stagliava potente e lirica, minacciosa ma convincente nella sua energica affabulazione.
Si accompagnava e si annunciava con il suono di una campana, vero partner per lunghi anni, strumento di lavoro e di affetto nostalgico.
E’ difficile, se non impossibile, rivedere quegli anni e non risentire quel suono, quella voce in “dolby surround” e i decibel di simpatia scampanellati che percorrevano i vicoli giungendo lontani ma distinti e riconoscibili nel quadrilatero delle Carceri quando, pensate un po’, egli era ancora in via Mazzini, all´altra parte del corso cittadino!