Il verbo “riformare”, nella sua generalità, vuol dire “dare nuova forma” o “conferire nuovo assetto” alla realtà, sia con riferimento a cose materiali e tangibili, sia con riferimento a contesti di tipo metaforico e concettuale. In tal senso, dunque, “riformare” vuole anche dire “riadeguare”, “aggiornare”, ovvero rendere attuale, rispetto alle circostanze contingenti presenti, ciò che evidentemente è usurato o superato dal tempo. Così oggi si sente diffusamente parlare di esigenza di riforma della Costituzione, di necessità di riforma dello Statuto dei lavoratori, di impellenza di riforma del sistema pensionistico con la chiara intenzione, se dietro alle parole ed alle dichiarazioni di principio è data come scontata la buona fede dei riformisti, di riadattare alcuni istituti che regolano la vita sociale alle nuove istanze espresse dalla società contemporanea
Tuttavia, per la mia esperienza giovanile, ovvero la mia e di tutti coloro che hanno vissuto la giovinezza orientativamente nel medesimo periodo di tempo, riformare, con riferimento a un particolare gergo diffuso negli ambienti militari, assumeva un significato e un valore del tutto particolare per le implicazioni e le interferenze che creava nella vita dei giovani, ovvero significava “non ritenere idoneo”, “escludere”, “esonerare”, “non arruolare” coloro che per mancanza dei requisiti richiesti erano dispensati dall’obbligo di leva. Circostanza che da alcuni era ritenuto un vantaggio e che da altri, appunto, era percepito e vissuto come una sorta di rigetto o di certificazione di inidoneità che qualche volta determinava conseguenze per la vita successiva.
Il termine “riformare”, dunque, assume tonalità cromatiche diverse e specifiche a seconda dei contesti (anche spaziali e temporali) di riferimento con ciò esprimendo il suo relativismo storico e geografico. Rispetto alla scuola primaria, ad esempio, si parla da decenni di una stagione riformistica sempre in atto soggetta agli umori, ai capricci ed alle visioni socio-politiche dei molteplici ministri che si sono avvicendati alla guida del dicastero, con alcune spinte in avanti, con rari momenti di quiete e con arretramenti vistosi (vedi riforma Gelmini) tutti giustificati, indifferentemente, in nome dell’innovazione, dell’interesse collettivo e delle nuove istanze sollecitate dalla “società della conoscenza” (anch’essa “liquida” e affetta da relativismo), tuttavia il più delle volte dimentichi della capacità di adattamento degli operatori (chiamati senza alcun compenso aggiuntivo alla formazione continua) e del diritto allo studio degli alunni (clienti – utenti), le cui prerogative costituzionali (articoli 3, 9, 33, 34 e 38 della Costituzione) diventano carta straccia rispetto alle logiche ragionieristiche di chi governa il Paese. Risultato? Si potrebbe presumere (e sarebbe anche giusto pensarlo) confusione, disordine, disorientamento, ma anche frammentazione e polverizzazione (soprattutto a livello sistemico), ma per fortuna non è così, perché la scuola (quella vissuta e praticata quotidianamente) da sempre possiede una propria “autonomia di giudizio” che travalica quell’autonomia istituita dall’art. 21 della legge 59/97 e che anche nei momenti più critici ha operato quale fattore di sviluppo, di progresso e di civiltà. E’ come dire, praticamente, che i ministri passano, ma che gli operatori scolastici restano, al loro posto, come sempre, imperturbabili, con tenacia e pervicacia, forti della consapevolezza che la “missione educativa” non può essere soggetta ai cambiamenti di fronte della politica perché essa, fondamentalmente e soprattutto, è missione di libertà.
Prima di concludere, approfitto delle pagine di questo giornale per rivolgere la mia espressione di gratitudine al sindaco, avvocato Giosuè Starita, per l’impegno concreto e tempestivo profuso ai fini della soluzione dei problemi strutturali della mia scuola. A lui voglio augurare il sostegno di tutta quella parte buona della collettività cittadina (la maggioranza) che lavora per la rinascita della Città.
PASQUALE BASSO