Intitolare a Maria Natale Orsini e Dino De Laurentiis una strada o una piazza e istituire per l´11 Novembre la Giornata della Cultura a Torre Annunziata. Sono queste le proposte che abbiamo lanciato dalle pagine del nostro giornale. Il "Giorno del Cinema e della Cultura" darebbe vita ad un evento con uno o più giorni dedicati a proiezioni e letture nelle scuole, concorsi e premi, impegnando i giovani e le energie culturali della città, in memoria di Dino e Maria ma anche di tutti quelli, a partire ad esempio da Michele Prisco, che hanno lasciato un segno nella storia delle lettere e delle arti di Torre Annunziata. Il modo migliore per ricordare le grandi figure della cultura che hanno dato vita ad opere eccellenti, come "Francesca e Nunziata" o "La provincia addormentata", e dato lustro nel mondo al cinema italiano, è quello di dar vita ad un progetto culturale che guardi lontano, coinvolgendo le attuali e le future generazioni. Ritrovare le proprie radici e l´identità del popolo torrese è la base per la ricostruzione di un tessuto sociale degradato. Occorre lasciarsi alle spalle "´a nuttata", e ricominciare a credere nelle grandi capacità di questo popolo, dal passato operoso e nobile, che negli ultimi anni, sopraffatto da violenze e malaffare, si è tirato in disparte, assistendo vuoto e sfiduciato all´incedere della cultura al ribasso. Se oggi chiedessimo ad qualche giovane studente chi è Michele Prisco o Mario Guaraldi avremmo probabilmente, tranne alcune eccezioni, un´alzata di spalle. Il livello di conoscenza di queste due figure, e di tante altre del nostro passato culturale, è oggi ampiamente al di sotto di quella della signora dell´incendio alle palazzine che impazza su Youtube.
Filippo Germano
a foto di Maria Orsini è di Paolo Borrelli

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Riportiamo alcuni brani tratti da "Francesca e Nunziata" di Maria Natale Orsini
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La fabbrica sulla strada

“Tra l’animazione paesana e laboriosa della via passava la carrozza sfiorando le fila dei carri fermi dinanzi ai pastifici. Gli stabilimenti si susseguivano a breve distanza, senza avere all’esterno niente della fabbrica, uguali alle altre case, con bei balconi e cornici di piperno. Differenti però dalle abitazioni civili per i portoni spalancati su androni vastissimi zeppi di sacchi e per la pasta stesa che danzava intorno ai caseggiati. Il coupé passava nel solco della strada chiusa dai palazzi alla vista della spiaggia, ma negli squarci liberi tra gli edifici, nei passi che con ripide scalinate da quel terrazzato naturale scendevano al porto, a tratti appariva il mare, di un azzurro così carico e di fronte la costa sorrentina tanto nitida e Capri tanto vicina che ogni volta era come una folgorazione....Stringendo le palpebre cercava di mettere meglio a fuoco le immagini mentre passava in rivista, spiegati lungo la strada, gli altri supporti che reggevano su due piani le canne. Quando queste sostenevano formati di pasta grossa, erano più doppie e scure, quando portavano le qualità sottili erano esili e chiare. Così nel chiaroscuro delle lunghe stese, negli alti castelli, dondolavano i maccheroni. ...Fuori, a quell’ora, intorno ai carri, vivace era l’andirivieni dei facchini. Le file scalze, curve, veloci, erano inghiottite dal buio degli androni e restituite al sole della strada in un avvicendarsi di carico e scarico, rapido, intenso, da formicaio. Colorati fazzoletti di cotone, piegati come strisce, legati sulla fronte fra le sopracciglia e l’attacco dei capelli, arginavano il sudore che invece chiazzava le ascelle delle maglie di lana. Sotto il peso, sotto l’arco del braccio alzato a fermare il carico, le facce pur segnate dallo sforzo erano pateticamente allegre e lo sguardo vivace cercava il colloquio ammiccante nell’incrocio con i compagni. Rimuovevano sacchi e sacchi: scuri quelli del grano, di tela bianca quelli della farina e delle paste lunghe secondarie con le etichette penzolanti dalla strozzatura. Trasferivano pesanti casse a traino da cinquanta chili per le consegne locali e ceste di legno sfibrato e spaselle ricolme di pasta corta. Negli scuotimenti del cammino esse smarrivano occhi di lupo, fascette e conchigliette, prontamente spigolate dai bambini che le seguivano curvi e solerti. Infagottiti in consunte giacche da uomo di quattro o cinque misure superiori alla loro, i capelli in segno di osservata igiene tagliati a zero, accompagnando la pasta non ne perdevano neanche un acino, niente sfuggiva al loro sopino. Per recuperare una manciata di conchiglie alcuni di essi giostrarono vicinissimi alle ruote e alle zampe di Menechiello, ma lui restò tranquillo e non si scompose mentre invece s’incazzò Sabatino. Bestemmiò e allora i monelli gli fecero sberleffi e lui, girandosi indietro, li minacciò schioccando la frusta. Risero alcuni operai con sulle spalle le gerle di tela zeppe di merce. Trasportavano ai carri, dal reparto dell’impaccatura, dei rotoli da cinque chili di pasta lunga, maccheroni avvolti a mano in ruvida carta blè.”

L´arte dell´essiccazione

...Poi con la sua docile allieva scese nei locali seminterrati. Era lì che nella seconda fase dell’asciugamento la pasta già “incartata” si portava, in quei luoghi appositi dove in solitudine riservata “riposava”, così si diceva. La temperatura in quei vani freschi, umidi, senza correnti, senza rinnovamento d’aria tra un deposito e l’altro, doveva essere inferiore a quella del locale o del luogo dove era stato effettuato il primo asciugamento. Nel suo buon ritiro, appartato e quasi segreto, la pasta stava per circa dodici ore, comunque fino a quando “rinveniva”, cioè fino a quando l’umidità interna veniva alla superficie equilibrandosi in tutta la massa, che tornava fresca come se fosse stata appena fabbricata. E il riscontro del perfetto “rinvenimento” e dell’avvio alla terza e ultima fase dell’asciugamento era verifica fatta sempre dall’intuizione e dall’esperienza.
Dopo, per la prosciugazione definitiva, la pasta si portava nella sfilza dei locali di stenditura, ai piani superiori, e lì dolcemente subiva l’essiccazione progressiva e totale con la naturale ventilazione. Ventilazione dosata, curata, mutevole, aperta ai venti benigni che si invitavano a scorrere, ad arieggiare gli essiccatoi, chiusa, serrata in prudenza tempestiva a quelli infidi, a quelli umidi che facevano ridiventare molle la pasta e a quelli secchi che la spaccavano. E le canne negli ambienti venivano continuamente spostate sugli stenditoi e orientate diversamente fino al perfetto asciugamento. Un pastaio allora doveva essere, e lo era, anche un astronomo e un meteorologo, doveva precorrere sereni e tempeste, sapere di stelle e fasi lunari, di pressioni ma senza barometro, di umidità ma senza igrometro. Francesca il tempo lo intendeva respirando, i cambiamenti li fiutava quasi. Ne conosceva i segni, i momenti, le ore, le successioni, i periodi cronologici e quelli stagionali: ne sapeva per antico esercizio e per connaturate qualità sensitive e un po’ magiche che le venivano da lontano e che non l’avevano mai tradita. Difficilmente l’aveva colta di sorpresa uno scirocco umido e traditore che poteva portare muffa e acidità ai suoi fili o aveva sbagliato un sereno variabile o non previsto un vento di tramontana troppo gagliardo da cui difenderli che non li incrinasse lasciandoli segnati. “Quando si asciugava la pasta” raccomandava sempre “non si può sbagliare. Ci vuole sempre tanta attenzione, non è mai fuori pericolo perchè la pasta non è ‘na cosa morta, è ‘na cosa viva”.