TORRE ANNUNZIATA. “Non ho ucciso Liberato Ascione. Gli ha sparato Aniello Nasto, ammazzandolo davanti al figlio. L’omicidio era un favore che il clan faceva al boss Francesco Casillo. Fu deciso un anno prima a casa sua. Io volevo uccidere solo Carlo Balzano. Chi ha sparato a Domenico Scoppetta? Io e da vicino, il sangue mi schizzò la camicia. La gente in strada mi guardava. Non capivo perché, poi vidi uno specchio. Umberto Onda, solo dopo, sparò quando Scoppetta era già morto”.

Michele Palumbo “munnezza”, 46 anni, ex-killer spietato di via Bertone, oggi è l’ultimo pentito del clan Gionta. Collabora con la giustizia e svela in Corte d’Assise i segreti dell’ala stragista. Le sue frasi-choc, riferite in udienza, contraddicono in più punti quanto per anni raccontato all’Antimafia da Aniello Nasto “quarto piano” e Vincenzo Saurro “sciabolone”, vecchie gole profonde della cosca. La testimonianza di Palumbo potrebbe riscrivere la storia di diversi maxi-processi alla camorra di Torre Annunziata.

IL PROCESSO. Palumbo, già condannato all’ergastolo per l’agguato ai danni di Ettore Merlino, è stato sentito in Appello nel processo-stralcio che lo vede imputato, assieme al killer Umberto Onda e al pentito Aniello Nasto, per la faida di camorra scatenatasi tra i Gionta di Torre Annunziata e i Gallo-Limelli di Boscoreale. Nel mirino ex-amici e rivali storici, puniti con 6 massacri negli anni di piombo 1998-2005.

A morire, in sequenza, furono Ciro Bianco “o’ squalo”, Domenico Savarese, l’ex dipendente delle Poste Liberato Ascione. E ancora Carlo Balzano, Domenico e Angelo Scoppetta. Alcuni delitti sono già costati una condanna a trent’anni in abbreviato per Giovanni Iapicca, Antonino Paduano, Liberato Guarro, Luigi Maresca e Gennaro Longobardi. Ad otto anni di reclusione, invece, la pena incassata dal collaboratore di giustizia Vincenzo Saurro.

GLI OMICIDI. E’ il 29 settembre 2004. Carlo Balzano e Angelo Scoppetta, i due cognati con un passato nel clan Limelli, cadono nella trappola dei Valentini di Torre Annunziata. I Gionta vogliono solo la morte di Balzano, l’affiliato che disturba il controllo del mercato della droga in città. Aniello Nasto racconta alla Dda che Balzano “è inaffidabile, assume iniziative non gradite”. Incassa uno stipendio da 2mila euro al mese ma “in qualche caso impone il pizzo di propria iniziativa”. La sua morte è decretata a Palazzo Fienga.

La brutale epurazione va a segno con nove colpi calibro 9x21 lugher, esplosi a due passi dalla Basilica della Madonna della Neve: 6 bossoli uccidono Balzano, 3 invece suo cognato. Ma Angelo Scoppetta non doveva morire perché – racconta sempre Nasto – “non c’entrava nulla, era una brava persona”. La sua “colpa” è quella di trovarsi alle ore 13 in sella ad uno scooter, in compagnia di Carlo Balzano: l’unico affiliato scomodo che “doveva morire” davanti al bar “Ittico della Madonna”.

Il massacro più cruento avviene però l’anno dopo. I Gionta si spingono nel rione Penniniello, il fortino dei clan avversari. La missione di morte colpisce ancora la famiglia Scoppetta. Nel mirino c’è Domenico, fratello di Angelo e cognato di Carlo Balzano: 37 proiettili contro il bersaglio, 20 a segno, muore un altro ex-Limelli. Michele Palumbo “munnezza” si è auto-accusato dell’omicidio davanti ai giudici. “Un omicidio di una carica di violenza esorbitante”, secondo l'Antimafia. “Umbertino Onda”, ex-reggente dei Gionta, “infierì sul corpo morto”. A dirlo è sempre lui, Michele Palumbo, l’ultimo super pentito di camorra. 

Nella foto, lo scenario del duplice crimine Balzano-Scoppetta

 


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