Sempre maggiore e preoccupante è la frequenza nella cronaca quotidiana di casi di violenze ai danni delle donne, sino a morirne nella maggior parte dei casi. E di tanto ciascuno di noi deve farsi carico interrogandosi sulle cause intimamente connesse ad un fenomeno dilagante che non si può e deve ignorare.

Leggendo i dati pubblicati dalla Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio, si evince che nell’arco della propria vita poco meno di 7 milioni di donne tra i 16 e i 70 anni, ovvero una su tre circa (31,5%), ha subìto una qualche forma di violenza fisica o sessuale, dalle forme meno gravi (come la molestia) a quelle più gravi, come il tentativo di strangolamento o lo stupro.

Il dato più allarmante però si evidenzia nella circostanza che gli autori delle violenze più atroci (sia violenza fisica sia sessuale in senso stretto) sono prevalentemente i partner attuali o gli ex partner: i dati statistici mostrano lievi riduzioni alternate ad aumenti degli omicidi con vittime di sesso femminile. Preoccupante è che negli ultimi quattro anni questi ultimi rappresentano oltre un quarto degli omicidi complessivamente commessi. Si tratta di un andamento non in linea con quello degli omicidi volontari, i quali risultano invece in forte diminuzione. Una su tre ha più di 64 anni. Il 19% delle donne assassinate ha tra i 35 e 44 anni, il 18% è tra i 45 e i 54.

Ancor più significativo è che in rapporto alla popolazione femminile residente, il maggior numero di omicidi avvenga in Umbria (con una percentuale del 7,8%), in Calabria (con una percentuale del 6,8) e in Campania (con una percentuale del 6,5).

Molti dei casi su cui i media pongono attenzione si innestano in processi di dissolvimento familiare ovvero nell’arco di crisi sentimentali e relazionali.

Al di là delle ulteriori con-cause che di volta in volta, e caso per caso, possono concorrere a disegnare il quadro nel quale tali efferati crimini avvengono, nel contesto cioè di crisi economiche e personali profonde, di distorsioni patologiche della personalità, o di distorsioni culturali e sociali e poi di mancata efficace e celere risposta della Giustizia, tutti temi che meriterebbero altrettanto approfondimento, sembra emergere spesso un significativo dato comune che riporta l’attenzione di ciascuno di noi su temi come la famiglia, la società e il sistema educativo e di valori che ne scaturiscono.

Assistiamo cioè, quasi sempre, ad un copione e ad una scenografia reiterata: nell’ambito di una crisi coniugale e/o relazionale il fattore violenza culminante spesso anche nell’auto-violenza finisce per rappresentare per l’autore l’unica via d’uscita avverso un’insostenibilità esistenziale. E questo non solo e non tanto per le ipotesi in cui a naufragare sia un matrimonio con la conseguente delicata e instabile gestione della fase della separazione, ma anche nelle ipotesi che la rottura sentimentale riguardi giovani coppie senza figli, e quindi talvolta anche al netto delle problematiche sottese alla gestione futura della coppia genitoriale che deve sopravvivere alla rottura sentimentale.

Occupandomi quotidianamente da giurista di problematiche endofamiliari all’indomani delle crisi e delle fratture relazionali, mi rendo sempre più conto che la violenza, fino al gesto estremo del femmimicidio è talvolta, come negli ultimissimi casi di cronaca, il risultato della ineducazione generalizzata al fallimento, alla sconfitta. Generalizzata perché tale incultura riguarda anche ognuno di noi. Facendo caso al nostro quotidiano, ci accorgiamo quanto sia sempre più difficile e inaccettabile da parte nostra ogni forma di privazione, di sacrificio, di sconfitta, di contrarietà. Dinanzi al dolore e all’assenza di strumenti per gestirlo si reagisce per lo più con rabbia ed isteria, sì che dinanzi al naufragio di una relazione sentimentale, che in qualche modo rappresenta una sorta di “fallimento” personale, ci si abbandona a reazioni scomposte per la mancata accettazione del diniego di felicità che ci viene imposto dall’esterno e contro la nostra “sovrana” volontà. Senza lasciarci a facili generalizzazioni, ma intravedendo latissime similitudini di talune situazioni con i casi in cui addirittura si arriva a reagire con violenza per un brutto voto a scuola, credo sia il momento di farsi carico anche del difetto del modello sociale ed educativo attuale, del contesto in cui cresciamo e viviamo, e del mondo che ci vuole tutti vincenti e perfetti, e in cui non c’è posto, né voce, né dignità per i vinti, i deboli, i sofferenti. Alla ricerca continua di un’apparenza di felicità, anche ammettere di vivere un problema diventa impossibile. Ci si rifugia nella negazione della realtà che è appunto morte, arrivando ad infliggerla e ad autoinfliggerla perché la vita, così, è inaccettabile. Pur essendoci mille eccezioni a questo collegamento tra violenza e non accettazione del dolore, è doveroso ammettere, dinanzi ai fatti di cronaca cui assistiamo, che si tratta spesso dell’ennesima sconfitta di un sistema sociale e culturale, per cui è d’obbligo interrogarsi vivendo il dubbio che ciascuno di noi stia contribuendo in qualche modo inconsapevolmente a fomentare una visione distorta, individualista e sommaria della realtà, in cui si nega ogni valore alla possibilità della sconfitta.

 

A cura di Anita D'Avino

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