Auto da fé in piazza Municipio. L’ignoto Torquemada ha eseguito di persona la condanna. Troppo gravemente ostentata la colpa e inconfessata. Troppo importante la colpevole. Quella Venere responsabile della guerra di Troia e, quindi, del concetto stesso di guerra, come evento possibile, accettabile, addirittura, talvolta se non sempre, necessario. O, almeno, percepito e comunicato come tale. Venere, simbolo della bellezza che in troppi annunciano salverà il mondo, ma che intanto non ha mancato di allontanarlo dalla pace, non solo preventiva, come dall’armonia tra le genti.

Al pari degli stracci, simboli del policromo moderno divenuto contemporaneo e sempre simultaneo. Simboli dell’accumulo compulsivo, dello scialo sontuoso del consumismo, del degrado materiale che prepara quello morale. Tanti stracci per un nudo simulacro candido. Stracci come il ladrone di Pasolini che muore sulla croce – ancora un simbolo, il più intenso – per un’indigestione di ricotta (il più antico e puro e semplice cibo prodotto dall’uomo), anche lui destinato a soccombere nei colori irreali e densi di Pontormo o Rosso Fiorentino.   
E i simboli, si sa, sono destinati a mutare se non a cadere, come le statue dei sovrani estinti o, peggio ancora, dimenticati. Alla damnatio memoriae si sopravvive, ma con le spalle a offrire sostegno alla testa di un altro.

Così sia anche per l’opera di Pistoletto. Replicabile e replicata dal 1967. Solo ultima, nella Sala delle Cariatidi a Palazzo Reale a Milano, sovrastata dall’Infinito di panni colorati e assegnata al terzo – l’ordinale è naturalmente provvisorio – paradiso. Eppure adesso si arricchisce di un nuovo significato. Anzi, si rappropria della realtà che mai come in questo caso si avvicina, quasi a sovrapporsi, alla verità. Perché gli stracci, selezionati con cura o a caso, non ha importanza - spesso nell’ipocrisia dell’arte le procedure coincidono - sono gli stessi abbandonati al vento sulle lingue d’asfalto biancastro dei raccordi, a bordeggiare i guardrails delle volute di uscite o d’interconnessione. Sono gli stessi dei viali spogli di periferie o degli sterrati dove finiscono le città. Sono gli stessi che si bruciano quando, ridotti in cumuli, traspirano polvere. Bruciano come le vite delle prostitute – meno estreme nelle nudità – che si offrono accanto a quelle vesti abbandonate.

Se le periferie non riescono a splendere dei neon, dei led e nemmeno del rassicurante chiarore notturno delle piazze dei centri storici, che siano questi a respirare il fumo dei roghi delle periferie. L’asse mediano ha una nuova uscita: “Palazzo San Giacomo”. Già tanto se i leoni di marmo in fondo sono rimasti a guardia della fontana Medina. Ci vuole tanto ad immaginarli ruggenti pronti al balzo, sentirne lo stridore delle unghie frenetiche di furore sul basalto, vederne le froge dilatate alitare rosei vapori? 

Si è compiuto il destino di un’opera d’arte e non per mano dell’artefice primo, l’artista demiurgo, ma attraverso la sua distruzione ad opera di un pubblico chiamato a definirne l’assolutezza in coerenza col mondo del buio e del mistero, della violenza e dell’orrore, forse del rancore. Ma sempre pubblico. Se l’arte è povera, la povertà – umana in primis, ma anche tutte le altre che nascono da quella economica – ha lanciato il suo grido di verità. Come mimesi e sub specie luminis: la luce e il fuoco che la origina. Rispettivamente rivelatrice e purificatore. Un auto da fé, appunto! Si è compiuto il destino dell’opera. Ma, in quanto replicabile e replicata, solo uno dei tanti. Una delle innumeri trasformazioni, nel rispetto del principio di Lavoisier. Pensate…ci saremmo limitati a contemplarla. A fotografarla, con l’immancabile selfie o nella posa classica accanto al mucchio, magari sotto il culo di Venere; i più arditi e capaci, con opportune prospettive, addirittura adagiati nel cavo dei seni.  E invece… Invece immaginatevi la cenere di Venere in una teca di “afflato manzoniano” e un’altra – se si riuscisse a distinguere la differente provenienza – con le ceneri degli stracci, magari da spargere al vento, inutili come “gride manzoniane”. Entrambe nella stessa piazza. Sempre a dialogare. Ma protette da mani blasfeme. Con i leoni sullo sfondo che nemmeno nella nostra malata fantasia riescono a sentire, nelle ceneri immobili tra i vetri, il fuoco che le ha generate. Poi magari scopriremo che l’inconsapevole, visionario, squilibrato “artista” sono quattro ragazzi fatti o un fin troppo distratto fumatore o un avvelenato dalla notte della vita che prima dell’alba ha cercato la strada che non riusciva vedere nel buio della sua anima. L’anima come periferia di un essere umano! 

Ancora la periferia. Quella dei roghi che non fanno luce ma fumo che soffoca e ceneri che si depositano sulle cose. Come polvere nera.
Quante riflessioni. Talune bislacche. Tutte censurabili. È proprio il caso di dire accidere ex una scintilla incendia passim, con le parole cupe di un poeta campano che giace “carbonizzato” nei papiri della villa dei Pisoni di Ercolano.  Angelo distruttore di sè stesso. Il più antico di una terra, la nostra, bella e terribile. Allegra e straziante. Commossa e indifferente. Di un’umanità crudele eppure intensa sino alle lacrime. Terra favolosa. E incomprensibile. A noi per primi.

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