Per Giuseppe Gallo (38 anni), alias “Peppe o’ pazzo”, riconosciuto solo una settimana fa in Cassazione come il leader indiscusso del clan Gallo-Limelli-Vangone di Boscoreale (e per questo condannato a venti anni nell’atto finale di “Pandora-Matrix”), oggi arriva la seconda mazzata.

Il ras, attualmente detenuto a Cuneo a scontare una condanna per altri reati, si becca altri trent’anni di carcere per il sequestro a scopo estorsivo del più piccolo dei fratelli Buccelli, Carmine, pure torturato da Gallo secondo l’accusa e con “tecniche da narcos colombiano”.

Un bagno d’acqua bollente, ricostruito dai brogliacci delle intercettazioni dell’inchiesta e descritto in requisitoria alla scorsa udienza dal pm della Dda di Napoli Pierpaolo Filippelli (che per Gallo aveva chiesto 30 anni di reclusione e 4mila euro di multa, vedi link correlato).

In pratica, il prezzo da pagare per un precedente ‘sgarro’ fatto al boss dai fratelli Buccelli, che gestivano la piazza di spaccio del Piano Napoli: un debito di 20 milioni delle vecchie lire, frutto di una partita non pagata di 8 chili di hashish.

Giuseppe Gallo, oggi, assiste alla nuova sentenza che lo riguarda collegato in videoconferenza dal carcere. Il collegio della seconda sezione penale del Tribunale di Torre Annunziata (presidente Aufieri, a latere Cervo e Di Maio) assolve il boss dalle accuse di associazione a delinquere di stampo mafioso finalizzata al narcotraffico, armi, spaccio e lesioni aggravate ai danni di Gennaro, il più grande dei due Buccelli, gambizzato diciotto anni fa con due colpi di pistola.

La pesantissima condanna per “Peppe o’ pazzo” arriva comunque e per un solo capo d’imputazione, nonostante i suoi difensori, gli avvocati Michele Cerabona, Lucio Caccavale e Ferdinando Striano, che già preannunciano appello avverso la sentenza, continuino a sostenerne l’incapacità a stare in giudizio perché vittima di “schizofrenia paranoide cronica”.

L’ultimo episodio eclatante nella notte tra il 25 e il 26 novembre, quando Giuseppe Gallo tentò di impiccarsi in cella. A salvare il ras, in quel caso, furono solo il pronto intervento delle guardie carcerarie e il successivo ricovero in terapia intensiva all’ospedale penitenziario di Torino.

 

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La richiesta di condanna