Molto spesso vengono espressi “like” in calce ad un post o ad un commento diffamatorio o “cd. odioso” di un post che, invece non lo è, o che lo è altrettanto e ci si chiede se ciò sia sufficiente a far scattare una responsabilità penale anche a carico di persona diversa dall’autore del contenuto incriminato.

Con la sentenza n 4534 del 9 febbraio 2022, n. 4534, la I Sezione penale della Cassazione ha stabilito che mettere un like ad un post razzista altrui potrebbe integrare il reato di propaganda di idee fondate sulla superiorità o sull'odio razziale (art. 604-bis, co. 1, lett. a), e financo rappresentare un elemento di partecipazione all’associazione finalizzata all'incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi (604-bis, co. 2, c.p.).

Nel contesto dei cd. reati d’odio, invero, non possono sottovalutarsi gli effetti di “diffusione” che caratterizzano le interazioni sul web. Nel caso in questione, l’indagato risultava essere membro attivo di una community virtuale che propagandava idee razziali e aveva inserito numerosi like ai post ivi pubblicati, consentendo così il “rilancio” di quegli stessi post e dei commenti correlati dal chiaro contenuto negazionista, antisemita e discriminatorio per ragioni di razza, citandosi, in particolare, l’irrisione delle vittime dei campi di sterminio e l’identificazione degli ebrei con il “vero nemico”.

La pronuncia della Corte ha destato e continua a destare molte perplessità nel mondo dei giuristi, e non solo. Esprimere un like può davvero ritenersi un gesto che inequivocabilmente significa aderire, condividere un contenuto pubblicato da altri? Ricordiamo, tra l’altro, che un like a volte è il risultato accidentale di uno scroll compulsivo.

Al netto di ciò, per essere cittadini digitali liberi e consapevoli, bisogna essere meno frettolosi, sbadati o superficiali, leggendo attentamente ciò che riteniamo meriti il nostro “pollice in su”.

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