“Ogni puntata è un piccolo capolavoro”. Così Pio Luigi Piscicelli, attore boschese, definisce la propria esperienza nella fiction “Braccialetti Rossi”, arrivata ormai alla terza serie, della quale è uno dei protagonisti storici. Una produzione Rai/Palomar, i cui assi portanti, l’amicizia, l’amore e la malattia in età giovanile, si intrecciano, dando vita ad un susseguirsi di emozioni che non lasciano indifferenti. Una tematica particolare e difficile da trattare, quella della malattia, che Toni (Pio) contribuisce, con il suo brio e la sua proverbiale simpatia, a stemperare. Noi de “Lo strillone.tv” abbiamo incontrato il giovane talento boschese per approfondire la sua ormai triennale esperienza nel mondo dello spettacolo.

Terzo anno nella fiction “Braccialetti Rossi”. Sei diventato più consapevole di quello che fai?

Il primo anno è stato un autentico gioco perché non avevamo consapevolezza della visibilità che questa serie avrebbe avuto. L’anno successivo, siamo stati pervasi da un forte senso di responsabilità, dato il successo ottenuto. Questa volta, siamo riusciti ad equilibrare senso di responsabilità e divertimento. Giacomo (Campiotti, il regista della serie ndr) definisce il lavoro sul set “un gioco perpetuo”. Un gioco che va effettuato in modo molto serio e meticoloso. Quest’anno, essendo veterani, abbiamo avuto la possibilità di integrare altre particolarità ai nostri personaggi.

Coesione è sempre stata la parola d’ordine del gruppo. Quanto è importante nel vostro lavoro?

Ogni anno arriviamo sul set, tre o quattro giorni prima dell’inizio delle riprese, senza la consapevolezza dell’evoluzione della storia e dei personaggi. Questo ci permette di consolidare i nostri rapporti. Prima di iniziare le riprese, osserviamo sempre un rituale: ci riuniamo tutti intorno al fuoco, in cerchio, e Giacomo ci consegna le sceneggiature.

Che ruolo ha avuto Giacomo Campiotti nella tua crescita personale e lavorativa?

Giacomo è una figura quasi paterna, è laureato in pedagogia, ha cinque figli ed è un regista rinominato soprattutto per il rapporto, per l’empatia che ha con i ragazzi. È meticoloso, si sofferma sulla singola battuta e, inevitabilmente, viene fuori un lavoro impeccabile. Noi definiamo ogni puntata come un “piccolo capolavoro”. Egli è in grado di creare un’atmosfera talmente contagiosa che è difficile non emozionarsi. Giacomo ti induce a provare le emozioni che si immagina per il tuo personaggio.

Siete stati ospiti al Festival del Cinema di Venezia. Che esperienza è stata?

È stata un’esperienza straordinaria, soprattutto nel momento della sfilata sul tappeto. Quel red carpet è stato calpestato da grandi nomi del cinema e della televisione ed emana un particolare “magnetismo”. Suscita, per questo, un grande orgoglio essere stati lì ma anche un senso di “incompatibilità”. E’ stato anche molto divertente, la tensione si è stemperata progressivamente, perché, poi, abbiamo presentato il film “Piuma”, prodotto dalla Palomar, al quale ha partecipato anche Brando Pacitto, il nostro Vale.

Pio, oggi, come vivi la problematica della malattia?

È un approccio del tutto differente rispetto a quando ero piccolo. Tendevo a raffigurare il pediatra come una sorta di essere mostruoso, munito di siringhe, che mi inseguiva. Quando siamo andati nei reparti oncologici degli ospedali, mi sono reso che conti che i ragazzi che vivono situazioni così complesse hanno valori supplementari, ulteriori rispetto ai nostri, come il coraggio. I ragazzi che vivono la malattia ci ringraziano per aver riportato fedelmente la loro condizione e questo è motivo di orgoglio.

Eravamo sorpresi dal fatto che, a contatto con loro, cresceva la nostra emozione. C’era anche un po’ di timore per come avrebbero interpretato la nostra presenza. Quando ci siamo resi conto che avevamo consenso, è stata un’emozione formidabile. Una lezione di vita molto importante l’abbiamo avuta dai genitori che assistevano i propri figli nella malattia. Alcune immagini mi sono rimaste impresse.

Tra i ragazzi della fiction, con chi hai più feeling?

Ho feeling con tutti, ma ho una particolare empatia con Mirko Trovato. In primo luogo, perché ha la mia stessa età, quindi, abbiamo molti elementi da condividere. Poi, siamo spesso sul set insieme, perché i nostri personaggi, Toni e Davide, hanno una sorta di empatia mistica. Inoltre, abbiamo caratteri differenti e ci compensiamo.

Nel gruppo della fiction, ti considerano “il nuovo Troisi”. Cosa ne pensi?

Questa vicenda mi mette molto in imbarazzo, perché Troisi è stato un emblema del cinema e del teatro napoletano. Non si può accostarmi a lui, né tantomeno ambire a quel risultato. Forse per il fatto che sono napoletano, posso ricordarlo, ma non di più. Dice Alessandro Siani: “Troisi è Dio, io sono il chierichetto”. Io mi accodo a questa riflessione.

Quali sono le tue aspettative realistiche?

Mi piacerebbe frequentare il Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, una volta conseguito il diploma. Ci sono degli insegnanti bravissimi e si fanno una serie di attività utili alla recitazione, oltre alla dizione, che mi completerebbero. Chi agisce nell’ambito dell’arte deve avere delle competenze minime in tutti i settori.

Come giudichi il mondo dello spettacolo?

Come tutti i mondi, è ricco di dinamiche abbastanza complesse. Bisogna avere tanta ambizione e studiare con impegno. Il fatto che ho partecipato a questa serie non mi dà la sicurezza che io possa essere preso per un altro lavoro prestigioso o possa continuare questa carriera. Toccherà a me nutrire le ambizioni.

Cinema, teatro o fiction. Quale, tra questi, ti affascina di più?

Forse il teatro. È la palestra, la scuola per un attore. È quello che consente di affacciarti ad altri contesti della recitazione. Con il teatro si acquisisce soprattutto la tecnica. Anche il doppiaggio consente di consolidare alcune competenze, come la voce, la tonalità, la dizione. In ogni caso, penso sia imprescindibile l’esperienza teatrale.

Con quale attore ti piacerebbe lavorare?

Adoro Johnny Depp, perché è versatile ed ha la capacità di trasformarsi. È un grandissimo attore, mi piacerebbe molto stringergli la mano e dirgli: “You’re very good”. Mi piacerebbe lavorare con grandi registi italiani, come Tornatore e Salvatores. Prediligo, poi, Eduardo De Filippo, che è stato il mio “maestro” da quando ero piccolo. Una passione, questa, ereditata dai miei genitori. Se non fosse stato per loro, non avrei avuto questa inclinazione e, più in generale, quella per le arti.

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