Boscotrecase. “Non slacciava la cintura di sicurezza in macchina. Era nella ‘Fiat Idea’ di suo fratello Andrea: sicuro, loquace, si grattava mani e viso, ma la cintura sempre stretta fu per noi un segnale. Interveniamo subito ‘dicemmo’, guardandoci negli occhi per un attimo. Sennò Giuseppe Gallo scappa via di nuovo. E’ scaltro, ha una tecnica sottile: cambia telefono ogni due settimane”.

Il maggiore dei carabinieri Paolo Guida, all’epoca al vertice della terza sezione del comando gruppo del nucleo investigativo di Torre Annunziata, lo ripercorre in Tribunale quello storico 14 marzo 2009. Giorno in cui Giuseppe Gallo, 38 anni, il boss “finto pazzo” del clan Gallo-Limelli-Vangone di Boscotrecase, finì manette ai polsi la sua latitanza dopo quasi due anni trascorsi in Spagna: il ras da lontano però parlava di continuo con la moglie, la mamma e i quattro fratelli. Prefisso internazionale, cellulari a volontà ogni quattordici giorni e chiamate brevi, solo da aree di servizio, per non farsi mai acciuffare.

Il video inedito della cattura del ras, avvenuta all’esterno della struttura ASL di Secondigliano, cinque minuti in tutto ma di immagini forti, è stato mostrato a Torre Annunziata al processo che si sta celebrando a carico di 7 persone: tutte imputate per favoreggiamento personale aggravato dall’aver agito per il clan Gallo.

Alla sbarra, tra gli altri, anche Adolfo Ferraro, il 63enne ex direttore del servizio sanitario dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Aversa. Il boss “finto pazzo” (così soprannominato per i suoi presunti disturbi schizofrenici, prendendosi dall’INPS circa 700 euro al mese d’indennità) scappava dal febbraio 2007, quando il Tribunale di Torre Annunziata emise nei suoi confronti un’ordinanza per l'applicazione della misura di sicurezza provvisoria del ricovero in ospedale psichiatrico; “peppe ’o pazz” rispondeva di concorso in detenzione e spaccio di stupefacenti e detenzione e porto di armi.

La fuga del boss era protetta da una presunta rete di fiancheggiatori e portavoce. Al suo servizio, per l’inchiesta, c’erano persino colletti bianchi, come Adolfo Ferraro “impegnato – così il maggiore Guida ai giudici della Prima Penale (presidente  Todisco) – a far da tramite al cellulare con sua moglie Annalisa De Martino. Non era un semplice rapporto dottore-paziente, era più confidenziale. Una telefonata ci insospettì parecchio. Avvertiva la donna che i carabinieri erano venuti all’ospedale psichiatrico”.

Il dottore non parlava con il boss, ma con sua moglie: frequenti, per l’accusa, le telefonate tra Ferraro e Annalisa De Martino, ritenuta all’epoca la portavoce del clan. Colloqui intrattenuti soprattutto alla vigilia di perizie psichiatriche decisive: mesi di intercettazioni anche ambientali delle forze dell’ordine sbattevano contro un muro di certificati medici, che rimettevano in libertà Giuseppe Gallo dopo pochi giorni di cella.

IL VIDEO. “Un’ambientale autorizzata dal pm Filippelli, nello studio del dottore, ci permise di fare il salto di qualità per la cattura del boss. Qualcosa quel giorno andò storto, il segnale dallo studio al centro di Napoli non ci arrivava”. Ma ormai “Peppe ’o pazz” era alle strette.  “Ferraro e un altro consulente, nominato dal Tribunale per la perizia di Gallo, si diedero appuntamento la mattina alla metropolitana di Piscinola”. I due medici si recarono poi all’ASL di Secondigliano il 14 marzo 2009. Avrebbero dovuto incontrare il boss, in arrivo sulla “Fiat” guidata da suo fratello Andrea.

Il video di 5 minuti racconta di un piano perfetto dei sodali per depistare gli inquirenti. Una sorta di “staffetta” tra due auto: una “Cinquecento” nera fiammante, con bordi rossi (in uso alla sorella del boss Giuseppe Gallo), anticipa l’arrivo della seconda macchina, la “Fiat Idea” con dentro il latitante. Fuori all’Asl, piazzate dalle tre di notte, due volanti dei carabinieri. E ancora: due dispositivi per l’ascolto audio ad ampio raggio e tre militari pronti ad agire, nel caso in cui il ras si fosse insospettito: gli avrebbero stretto delle cinture intorno. Non avviene. Al contrario il boss arriva, tranquillo, “si grattava mani e viso”.  Dall’Asl escono i due medici, si apre la portiera. “Peppe ’o pazz” non scende dalla macchina, ha la cintura di sicurezza sempre allacciata. “Interveniamo”, si sente a un tratto: manette ai polsi, blitz ok. Scacco al latitante. 


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