Era una calda domenica d’agosto, quando Torre Annunziata ebbe il suo “mezzogiorno di fuoco”. Il 26 agosto del 1984 per la città resterà uno dei giorni più tristi e bui della sua storia, per via di una delle stragi di camorra più sanguinarie ed eclatanti. Otto morti, sette feriti, tra i quali anche innocenti.

Dal nome del Santo del giorno è ricordata come “Strage di Sant'Alessandro”. L'allora giovane poliziotto Andrea Buonocore quel giorno era in servizio presso il Commissariato di Polizia di Torre Annunziata, ricevette diverse concitate telefonate anonime in stretto dialetto: “Correte ci sono tanti morti, feriti e sangue dovunque”.

L'esperto militare, conoscitore di luoghi e circostanze delle faide di camorra nel territorio, non esitò a far convergere sul luogo segnalato l'autoradio più vicina: “Ricordo che i colleghi facevano fatica a spiegarmi quello che avevano visto prima ed io a prendere nota per riferire ai suoi superiori. Sono attimi che ho scolpito nella mia mente e che ricordo con trepidazione ed entusiasmo per aver contribuito nell'immediato a gestire una situazione che coinvolse l'intera Arma dei carabinieri che fece convergere su Torre Annunziata centinaia di uomini e numerosi ufficiali. I militari contribuirono ad avviare una struttura investigativa complessa di cui il punto di riferimento rimase il valoroso allora capitano Gabriele Sensales".

La “strage di Sant'Alessandro” ebbe una rilevanza mediatica internazionale. Le complesse indagini spiegarono che l'evento clamoroso fu l'epilogo di una lotta per il controllo dei numerosi interessi criminali dei vari clan di camorra, inizialmente spartiti con un accordo di “cartello”, poi saltato per le mire espansionistiche di Valentino Gionta che fece alleare il clan di Torre Annunziata con quello di Lorenzo Nuvoletta di Marano, ritenuto “proconsole” della mafia siciliana.

Tra gli otto morti vi fu anche una vittima innocente, il padre di famiglia Francesco Fabbrizzi di 54 anni. In quel momento transitava tra via Castello e Via Roma, nei pressi del “circolo dei Pescatori”, frequentato da esponenti del clan di Torre Annunziata ed anche, come era solito fare la domenica, dal capoclan Valentino Gionta, vero bersaglio dei 15 sicari dei clan Bardellino e Alfieri. Erano armati fino ai denti: volevano punirlo per aver violato accordi miliardari sugli interessi illeciti della camorra nella vasta area Vesuviana.

La strage fu attuata in modo spettacolare e particolarmente cruento. I killer giunsero sul posto occultati in un bus turistico rubato in Calabria. Scesero dal veicolo suddivisi in due gruppi che indirizzarono una fitta pioggia di proiettili contro le persone che sostavano all'esterno e all'interno del locale. Furono attimi in cui i colpi schizzavano da tutte le parti e solo per una fatalità non fu colpito il capoclan, protetto dallo scudo umano dei suoi fedelissimi. I morti rimasero sui marciapiedi, 7 feriti furono accompagnati da conoscenti in vari ospedali della zona. Valentino Gionta riuscì a scappare nei vicoli del popoloso quartiere da cui aveva iniziato la carriera criminale, trasformandolo inizialmente in un enorme mercato delle sigarette di contrabbando e poi in centrale criminale da cui si controllavano gli appalti e il redditizio controllo del mercato delle carni, in contrapposizione con il clan di Carmine Alfieri di Nola.

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