L’omicidio come leva per ristabilire gerarchie, l’intimidazione come metodo per far terra bruciata attorno ai rivali: un linguaggio mafioso che non conosce tregua né mediazione, ma solo violenza. C'era una vera e propria strategia del sangue per riaffermare il dominio criminale del clan Gionta a Torre Annunziata e respingere le mire espansionistiche dei gruppi rivali. È quanto emerge dalla recente ordinanza giudiziaria che ha portato a una maxi-operazione dei carabinieri di Torre Annunziata, decimando le fila del sodalizio camorristico oplontino.

Il quadro che viene fuori dalle indagini è inquietante. La volontà di uccidere per “dare un segnale” è esplicitata in una intercettazione ambientale chiave, registrata sul lastrico solare di un edificio in Via Nicolò D’Alagno, nella disponibilità della famiglia Savino. È lì che Carmine Savino, dialogando con il fratello Alfredo e un terzo uomo non identificato, lasciava pochi dubbi: “Sapete che penso? Che a noi ci servono un paio di morti”.

Una frase che, più di qualsiasi altra, rivela l’intento omicidiario come strumento di potere. “O mo o mai più! … io sono d’accordo a farlo zio! … per me jàte bene, per me fate bene! … ora è il momento!”, incalzavano i presenti, mentre si pianificavano i prossimi passi sul territorio. Un territorio sempre più conteso, con il clan Gionta impegnato a fermare l’ascesa di nuove formazioni criminali, in particolare il cosiddetto “Quarto Sistema”, che in quegli anni tentava di espandere la propria influenza dalla zona del Penniniello fino al cuore della città.

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