Serena De Filippo infermiera di Torre Annunziata in trincea. Dal San Leonardo di Castellammare di Stabia al Cotugno di Napoli: a soli 30 anni ha già alle spalle quasi dieci anni di servizio. Alle prese con giornate di lavoro  massacranti, tra turni infiniti e rischio aggressioni, Serena potrebbe mollare tutto e voltare pagina, ma ha scelto di resistere.

In Campania è emergenza 118. A bordo delle ambulanze sono sempre meno i medici e addosso agli infermieri tutta la responsabilità di centinaia di vite da salvare. "La maggior parte delle ambulanze è di tipo B, composte quindi da autista soccorritore e infermiere. Questo comporta un grave danno per l'utenza perché finché si tratta di codici verdi/gialli possiamo ancora intervenire ma in altre situazioni più importanti, come i codici rossi, la figura del medico è indispensabile".

"Indispensabile non perché noi infermieri siamo incapaci di agire ma perché non ci è concesso somministrare farmaci se non dietro consenso di un dottore. Ecco quindi che i tempi si allungano perché arrivati sul posto, l'infermiere deve chiamare in centrale e deve essere autorizzato dal medico telefonicamente. Così non funziona, noi infermieri siamo stremati. Servono più medici e ambulanze sul territorio". 

Senza un medico a bordo inizia una corsa contro il tempo che non sempre ha un epilogo felice. Aggrediti sempre più spesso da pazienti e familiari, gli infermieri portano sulle spalle il peso di una sanità che non funziona. 

"Spesso ci troviamo ad intervenire in situazioni che potrebbero essere tranquillamente gestite da un medico di famiglia - sottolinea Serena - Ma quest'ultimo o è irreperibile o impossibilitato. Ciò implica che se nella stessa città un paziente ha un arresto cardiaco o si trova in una situazione più grave, l'ambulanza è bloccata e devono mandare la prima libera sul territorio che può trovarsi anche a km di distanza".

Dopo l'esperienza a bordo delle ambulanze, la vita professionale di Serena viene completamente stravolta dalla pandemia. Il Covid-19 entra nella sua quotidianità, mettendola a dura prova. L'ospedale Cotugno di Napoli la convoca nel 2020 e Serena, senza pensarci due volte, indossa casco e tuta bianca per assistere i contagiati.

"Il primo impatto entrando nel mio reparto è stato disarmante. Il corridoio era diviso in due: un lato "infetto" dove si accedeva solo con tute di protezione e un lato "pulito", dove i colleghi ti passavano il materiale da utilizzare per i pazienti covid positivi. Ho visto tante persone morire, vivendo mesi della mia vita con un forte stato d'ansia".

"La paura di infettarmi era tanta ed essere un possibile untore per la mia famiglia era un dramma per me. Ricordo che i primi tempi, quando tornavo a casa, scappavo nella mia stanza per cercare di ridurre al minimo i contatti con la mia famiglia. Sono momenti che purtroppo mai potrò dimenticare".

Dopo anni di difficoltà e sacrifici, Serena ha ottenuto un contratto a tempo indeterminato proprio al Cotugno di Napoli. La sua è una missione di vita e non ha paura di affrontare le sfide quotidiane che riserva, inevitabilmente, il suo difficile lavoro. 

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