L'immagine del bello e dannato ha dominato il cinema del Novecento, facendosi oggetto del desiderio e dell'emulazione delle masse. La sua fisionomia è mutata con il cambiare dei tempi, dei paesi e dei generi cinematografici, ma nell'immaginario collettivo e nella società la sua figura è rimasta impressa costantemente e ha assunto un aspetto mitico, contribuendo di fatto alla formazione della personalità di moltissimi individui.

E' quello che racconta in "Belli e dannati. Volti tragici del cinema del Novecento" scritto da Luigi Luca Borrelli ed edito da Odoya, dove il divismo di Rodolfo Valentino e Tyrone Power, due stelle dell'epoca d'oro di Hollywood, è stato differente da quello tormentato di John Garfield, che spianò la strada alla nuova generazione di Montgomery Clift, Marlon Brando e James Dean. Modelli di uomini che lasciavano trasparire fisiognomiche diverse, calibrate sulle tendenze del momento e personalità sfaccettate spesso indecifrabili, che nascondevano fragilità dietro la maschera e talvolta anche davanti allo schermo. Caratterizzazioni diverse anche in termini fisici, con il fenotipo moro “bello e impossibile” (capelli e occhi scuri, meglio ancora se neri) a dominare l’epoca del muto e il primo sonoro, con Hollywood prevalentemente in bianco-nero, per divi affiancati a donne chiare, spesso bionde; e poi tipi più chiari e meno “virili”, castani, biondi, più fragili e umani, nella Hollywood che mutava pelle come la società americana che rappresentava.

Queste caratterizzazioni di personaggi forti, marcati, incisivi, spesso autolesionisti, contribuì peraltro a scardinare codici, rimettere in discussione le autorità costituite e la morale comune occidentale, talvolta piegandola grazie alla potenza del medium cinematografico.

E sempre Hollywood vide nel gallese e shakespereano Richard Burton una proiezione dei suoi sogni, poi proseguita in Steve McQueen, Mickey Rourke e River Phoenix, a chiudere un cerchio della storia degli Stati Uniti. Personaggi che sentiamo istintivamente più vicini al nostro tempo e modo di atteggiarci, che forse più hanno influenzato, anche dal punto di vista della moda, i nostri usi e costumo ancora in voga oggi.

In parallelo, anche i volti scolpiti dei divi europei rivaleggiarono con quelli dei colleghi d'oltreoceano: dalla tragedia italiana di Osvaldo Valenti, fucilato con la moglie Luisa Ferida dai partigiani, all'aura triste, romantica e ottocentesca di Gérard Philipe; dalla malinconia stoica di Jean Gabin fino al glaciale distacco di Alain Delon e alla bellezza decadente di Helmut Berger.

Il Medioriente, la Russia e il Giappone sembrarono suggerire anch’essi i propri nomi. Tutti conosciamo infatti Toshiro Mifune, l’attore-feticcio del grande Akira Kurosawa; indimenticabile è l’aurea un po’ tenebrosa dell’egiziano Omar Sharif, che tutti ricordano inDoctor Zhivago e Lawrence of Arabia. Meno noti nel nostro Occidente sono altri personaggi dell’Europa dell’Est, di cui si fa curiosa menzione: il James Dean polacco, cioè Zbigniew Cybulski e due grandi attori sovietici, Vasilij Lanovoj e Vjačeslav Tichonov.

Questo saggio si propone di indagare, attraverso un secolo di cinema, la figura del bel tenebroso - che in qualche modo la settima arte sembra ereditare dalla grande letteratura dandole un volto nuovo - anche attraverso un'analisi della società e del cinema del tempo e non senza interrogarsi sui suoi risvolti esotici e contemporanei: esiste ancora il mito del bello e dannato nel terzo millennio, oppure è una figura inestricabilmente legata al secolo Ventunesimo? Quali attori oggi possono incarnarlo?

Il tutto facendo presente al lettore che questi grandi protagonisti del Secolo videro immancabilmente crollare, giorno per giorno, quello spartiacque che divideva le loro private esistenze da quelle immaginifiche dello schermo, rendendoli dei veri e propri belli e maledetti nelle vite come nelle sale.

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